Pierpaolo Martino, LA FILOSOFIA DI DAVID BOWIE, Mimesis, 2016
Paperback, 145 pagg, 170x108x10 mm, 154 gr, € 12,00 [lingua italiana]
THE BOWIE OF SUBURBIA
Un piccolo libro dal titolo importante quello pubblicato dalla Mimesis, per la collana Musica Contemporanea. Nientemeno che la “filosofia” di David Bowie, declinata nel sottotitolo Wilde, Kemp e la musica come teatro. L’approccio di Pierpaolo Martino verso l’opera bowiana è piuttosto interessante, perché se da una parte imbastisce un’analisi prettamente accademica – con l’immersione nei Cultural Studies e muovendosi in un contesto di letteratura, teatro e semiotica del linguaggio – dall’altra egli utilizza la propria prospettiva di musicista per fare alcune acute osservazioni sulla produzione del cantante dal punto di vista interpretativo e musicale. Curiosamente Martino – ricercatore universitario del Dipartimento di Anglistica nell’Università di Bari, ma anche contrabbassista – nei cinque capitoli di questo volume tende ad avvicinarsi a Bowie partendo da prospettive solo apparentemente marginali: un film apocrifo, un letterato dell’800, un singolo degli anni ’80 e l’album in assoluto più sottovalutato.
Nel primo capitolo il film Velvet Goldmine (1998) viene utilizzato per accostare la figura e le opere di Oscar Wilde all’espressione del fenomeno glam durante l’inizio degli anni ’70 del secolo scorso, del quale ben sappiamo essere stato Ziggy Stardust l’alfiere principale. Non è certo una forzatura dire che la più famosa maschera di David incarnasse l’alienità – non solo sessuale – di un individuo all’interno della società nella quale si muoveva, tanto quanto – in un certo senso – fece il poeta di origine irlandese nella sua vita e con le sue opere. Nel film di Todd Haynes vediamo Wilde essere origine e motore del movimento glam, un espediente narrativo decisamente originale. All’epoca Bowie disconobbe ufficialmente la pellicola, rifiutando di concedere le proprie musiche alla soundtrack, anche per evitare un conflitto di interessi (più volte in quel periodo affermò di avere in cantiere nuovi progetti su Ziggy, poi completamente abortiti). Eppure in una delle scene chiave del lungometraggio possiamo ascoltare chiaramente proprio David cantare nei cori di Satellite of Love di Lou Reed, brano di certo non meno simbolico di una qualsiasi traccia tratta da The Rise and Fall of Ziggy Stardust. Sono pronto a scommettere che David in cuor suo guardò i personaggi di Slade e Curt Wilde con molto interesse, come se si specchiasse nel riflesso distorto di uno specchio, vedendo in essi un’immagine non troppo lontana e alterata rispetto ai propri alter-ego.
Nel secondo capitolo Martino si concentra sull’importanza che il mimo Lindsay Kemp ricoprì nel trasmettere al giovane David Jones la passione per il teatro, la maschera e l’arte orientale, oltre che la sensibilità queer. Nulla di nuovo fondamentalmente, anche se forse non si è ancora abbastanza ribadito quanto quei nuovi interessi forgiarono e alimentarono enormemente l’immaginazione e l’ispirazione di un artista che non smise di recitare fino agli ultimi istanti della propria carriera.
Nel terzo capitolo viene tracciata una mappatura cronologica dell’apparato visuale del genio di Brixton, componente essenziale della sua arte e del suo fascino, e recentemente evidenziato anche dalla grande mostra David Bowie Is. Non solo le copertine e le apparizioni televisive, ma anche i videoclip, i personaggi di celluloide, … dal periodo mod fino alla macabro addio in Lazarus. È questo un campo che andrebbe senz’altro approfondito, anche perché viene costantemente amplificato dal mondo virtuale della Rete, dove continuano a riaffiorare nuove testimonianze fotografiche e video.
È una vera e propria indagine letteraria quella che contraddistingue il penultimo capitolo. Le tematiche delle liriche bowiane trovano assonanze narrative non solo in autori come Oscar Wilde, George Orwell e Jack Keruac, ma anche in William Shakesperare ed Evelyn Waugh. Appare inoltre evidente che all’autore di questo saggio stanno particolarmente a cuore le opere principali di Colin McInnes e Hanif Kureishi. Solo recentemente si è data la giusta considerazione ad Absolute Beginners e (soprattutto) a The Buddha of Suburbia, e anche qui si sottolinea quanto la loro trasposizione musicale (oltre quella filmica) dimostrasse il grado di corrispondenza genetica nel DNA di David.
Il capitolo finale vede alcune osservazioni assolutamente pertinenti e allo stesso tempo affascinanti, nelle quali ci si spinge a considerare quanto pregna, significante e originale sia la voce di Bowie nell’interpretazione del proprio cantato, da The Laughing Gnome fino a ‘Tis A Pity (She Was A Whore). Oltre le liriche e il loro significato, viene qui brillantemente considerato quanto l’uomo caduto su questa Terra utilizzò la propria voce come immagine sonora significativa, uno strumento per dialogare attraverso i generi, con i propri musicisti e “con paesaggi e personaggi sonori imprevisti e imprevedibili, sempre eccedenti, e spesso inauditi”. In definitiva gli si riconosce il ruolo di attore sensibile e singolare che creò un proprio spazio teatrale fatto di personalissime e originali interpretazioni, sia visive che sonore.
Nelle dissertazioni di Pierpaolo Martino traspare, oltre allo studio (notevole la parte bibliografica), una sincera passione che lo porta anche ad evidenziare alcune sottigliezze dal punto di vista musicale: lo strumento del basso prima di tutto, ma finalmente si riconosce anche il merito di un chitarrista sopraffino come David Torn (che da Heathen fino a The Next Day ha apportato superbi elementi sonori – molto recentemente anche il documentario della BBC The Last Five Years ne ha messo in risalto il valore).
Dopo avere letto e ascoltato in tanti anni una serie pressoché infinita di banali approssimazioni e sciocche generalizzazioni su David come interprete pop-rock, attore e star del jet set, La Filosofia di David Bowie conduce definitivamente, anche nel nostro paese, la figura di questo artista dentro un contesto accademico, valorizzandone lo spessore e la sua originalissima opera, dimostrando che – oltre che da amare – molto rimane ancora da studiare, indagare e divulgare.
Matteo Tonolli

Una immagine promozionale del film ‘Velvet Goldmine” (Todd Haynes, 1999): Ewan McGregor e Jonathan Rhys-Meyers nei panni (rispettivamente) di una credibilissima variante di Iggy Pop e una imperfetta versione di Ziggy